Il Manifesto di Chelsea

Dentro ognuno di noi che leggiamo, che abbiamo studiato, che svolgiamo un lavoro intellettuale, che abbiamo letto la Repubblica di Platone si nasconde “un meritocrate”. Inseguiamo il sogno di una società in cui i “migliori” governino, in cui i “mediocri” o i “pessimi” non possano assumere ruoli di rilievo da cui fare danno. Una società in cui sia dato a ciascuno secondo i suoi meriti, in cui la nascita, la raccomandazione, la rendita e, persino, la fortuna, non costituiscano percorsi di vita “truccati”. Chiamiamo questo sogno “uguaglianza delle condizioni di partenza” e la società che guarisce da questi mali “meritocratica”. Alcuni dei “meritocrati” più stupidi ritengono che la scuola debba svolgere il ruolo di garantire la “mobilità sociale”, ovvero riconoscere, a prescindere dalla classe sociale di provenienza i degni di ascendere alle classi superiori ed ai ruoli direttivi, la chiamano, sciagurati, “ascensore sociale”. Alcuni di noi sono inconsapevoli che questa società non sarebbe un sogno, ma un incubo. Michael Young nel 1958 ci ha avvertiti dell'orrore della “Meritocrazia” e basta essere abbastanza dotati di merito per capire come questo “sogno” sia profondamente sbagliato. Purtroppo la caratteristica del “meritocrate” è di essere un “mediocre”, un “idiot savant”, ricco di titoli accademici, tanto quanto povero di capacità critiche e di autentica cultura. In politica la “meritocrazia” fu agitata come slogan da Tony Blair ed oggi da Matteo Renzi. A loro dedico le pagine nelle quali Micheal Young fa descrivere al suo giovane “meritocratico” sociologo il “Manifesto di Chelsea”, il programma politico da cui nacquero le proteste in cui tragicamente morì l'autore del saggio.

 

Gli agitatori di venticinque anni fa continuavano a porre interrogativi sulla società. Da queste discussioni derivavano le teorie sull'uguaglianza con le quali ci troviamo oggi alle prese.

Perchè, chiedevano, un individuo è considerato superiore ad un altro? Per colpa rispondevano, della ristrettezza dei valori ultimi, e criteri di giudizio in base ai quali gli uomini si valutavano vicenda. Quando l’Inghilterra era governata da guerrieri, il cui potere era fondato sull’abilità di uccidere, grand’uomo era il gran condottiero; e i pensatori, i poeti e i pittori venivano trattati con disprezzo. Quando l’Inghilterra era governata da proprietari terrieri,coloro che vivevano del commercio o della predicazione o del canto erano tutti considerati di razza inferiore.

Quando l’Inghilterra era governata da capitani ’d’industria, tutti gli altri uomini erano considerati inferiori. E tuttavia — essi sostengono — non c’era mai stata una semplificazione cosi grossolana come nell’Inghilterra odierna. Dato che il paese si consacra all’unico, supremo scopo dell’espansione economica, le persone vengono giudicate solo in base a quanto incrementano la produzione, o alle competenze che, direttamente o indirettamente, porteranno a quel fine. Se fanno soltanto quello che fa il comune lavoratore manuale, non contano niente.

Se fanno quanto fa lo scienziato la cui invenzione esegue il lavoro di diecimila individui, o il dirigente che organizza covate intere di tecnici, allora appartengono al novero dei grandi. La capacità di aumentare la produzione, direttamente o indirettamente, si chiamava “intelligenza”: questa ferrea misura è il criterio con cui la società giudica i suoi membri. Nello Stato moderno l’intelligenza qualifica all’esercizio del potere quanto la qualificava la nascita nello Stato d’una volta. L’affermarsi di questa qualità é dovuta a un secolo di guerre e di minacce di guerra, in cui il genere di realizzazione professionale che aumentava il potenziale bellico nazionale veniva esaltato sopra ogni altro; ma — dicono i tecnici — ora che la minaccia non é più cosi immediata, non potremmo incoraggiare il pluralismo dei valori?

Nel 2009 una sezione locale del partito dei tecnici pubblicò il Manifesto di Chelsea: esso, pur non avendo suscitato a suo tempo molto interesse nel pubblico, ha avuto nell’ultimo decennio una notevole influenza, soprattutto all’interno del movimento. E un lungo ed enfatico documento, che comincia proclamando (con un’interpretazione che nessun storico potrebbe accettare) che lo scopo principale del gruppo, come di tutti i suoi predecessori socialisti, e ancor prima di loro della Chiesa, è di promuovere la varietà. La loro meta è la società senza classi. Combattono l’ineguaglianza perché è l’espressione una visione angusta dei valori.

Negano che un uomo possa essere fondamentalmente superiore a un altro. Perseguono l’uguaglianza tra gli uomini nel senso che vogliono che ognuno sia rispettato per quanto di buono è in lui.

Ogni uomo è un genio in qualche cosa, persino ogni donna, dicono: è compito della società scoprire e onorare questa cosa, si tratti di genio per la ceramica, o per la coltivazione delle margherite, o per suonare 1e campane, o per accudire i bambini, o persino (per dimostrare la loro tolleranza) per inventare radiotelescopi. Forse vale la pena di citare l’ultima parte del Manifesto; in esso sono sintetizzate le strane idee degli autori su come una società senza classi dovrebbe essere:

La società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e cultura, per la loro occupazione e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e la generosità, le classi non potrebbero più esistere.

Chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, che il funzionario statale straordinariamente capace a guadagnare premi è superiore al camionista straordinariamente capace a far crescere rose? La società senza classi sarà anche la società tollerante, in cui le differenze individuali verranno attivamente incoraggiate e non solo passivamente tollerate, in cui finalmente verrà dato il suo pieno significato alla dignità dell’uomo. Ogni essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo alla luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacita per vivere una vita ricca.

Il Manifesto rivela la sua arcaicità in modo estremamente curioso attraverso la persona stessa dell’autorità che ha scelto di andare a stanare dalla tomba: non uno dei moderni “teologi” scientifici, ma, strano a dirsi, il quasi dimenticato Matthew Arnold. Esso mette addirittura in corsivo l’assurda concezione di “cultura” del suo Culture and Anarchy, essa «non cerca di abbassare il suo insegnamento al livello delle classi inferiori; non cerca di conquistarle a questa o quella sua setta, con giudizi prefabbricati e parole d’ordine. Essa tende ad abolire le classi; a diffondere ovunque il meglio di quanto é stato pensato e capito nel mondo; a far vivere tutti gli uomini in un’atmosfera di bontà e di luce, ove possano servirsi delle idee, come essa stessa fa, liberamente: nutriti e non limitati da esse».

O Dio, o Galton!

Alla luce di questa impostazione gli autori del Manifesto hanno cercato di dare un nuovo significato all’uguaglianza delle opportunità. Questa, hanno affermato, non deve significare uguali opportunità di salire lungo la scala sociale, ma uguali opportunità per tutte le persone, a prescindere dalla loro “intelligenza”, di sviluppare le virtù ed i talenti di cui sono dotate, tutte 1e loro capacità di apprezzare la bellezza e la profondità dell’esperienza umana, tutte le loro facoltà di vivere una vita piena. Il bambino, ogni bambino, è un individuo prezioso, e non soltanto un potenziale funzionario della società. Le scuole non debbono esser vincolate alla struttura occupazionale, non debbono limitarsi a formare individui idonei a svolgere 1e mansioni considerate importanti in un particolare momento, ma debbono dedicarsi a incoraggiare lo sviluppo di tutte le qualità umane, siano o non siano queste del tipo richiesto da un mondo scientifico. Alle arti e alle abilità manuali deve essere dato altrettanto risalto che alla scienza e alla tecnologia.

Il Manifesto chiedeva l’abolizione della gerarchia delle scuole e la restaurazione delle scuole a indirizzo unico. Queste ultime, a suo avviso, dovrebbero disporre di un numero di buoni insegnanti tale da consentire che tutti i ragazzi siano seguiti e stimolati individualmente. In tal modo essi potrebbero svilupparsi secondo il proprio ritmo fino a raggiungere i1 massimo delle loro possibilità. Le scuole non segregherebbero i simili, ma mischierebbero i dissimili; promuovendo la diversità entro l’unità, insegnerebbero il rispetto per quelle infinite differenze umane che non sono certo gli ultimi valori del genere umano. Le scuole non considererebbero i bambini come formati una volta per sempre dalla Natura, ma come una combinazione di facoltà che possono essere coltivate mediante l'educazione.