Sulla meritocrazia settima parte

In realtà non è così, cito da1:
“Giustificare la disuguaglianza economica: giudizi di valore e giudizi di fatto
Torniamo alla citazione originaria di Bobbio che possiamo utilmente inte­grare con la seguente: «Le dottrine inegualitarie [...] presuppongono [...] un giudizio di valore opposto a quello delle dottrine egualitarie, ovvero il giudizio che questa o quella forma di disuguaglianza è giovevole o addirit­tura necessaria al migliore assetto della società o al progresso civile, e per­tanto l'ordine sociale deve rispettare, non abolire le disuguaglianze tra gli uomini, o almeno quelle disuguaglianze che vengono considerate social­mente e politicamente utili al progresso sociale». Da questa citazione, e dalla precedente, sembra possibile estrarre due af­fermazioni qualificanti. La prima è quella secondo cui le contrapposte posizioni dipendono da una valutazione che riguarda non l'accettabilità o meno della disuguaglianza in quanto tale (quindi un puro giudizio di carattere etico), ma il suo rapporto con un elemento esterno, identifica­to, secondo la formulazione più generale, con una qualche idea di pro­gresso sociale; la seconda è che tale valutazione viene condotta sulla ba­se di giudizi di valore contrapposti, la cui origine è assai difficilmente rintracciabile.
Esaminando le posizioni degli economisti troveremo ampia conferma della prima affermazione, mentre emergeranno elementi che suscitano qualche dubbio sulla sistematica riconducibilità delle due posizioni a op­posti giudizi di valore. Vedremo che le differenze, almeno quelle più im­mediatamente rilevabili, sembrano nascere da diversità nei «giudizi di fatto», dunque da differenze che si collocano in un ambito nel quale più facile dovrebbe essere il superamento dei contrasti. Eppure così non è. Articolato in modo essenziale, il nostro esame si risolve in pochi punti. Il primo è che nella letteratura economica è diffusissima la tendenza a va­lutare la disuguaglianza economica non in se stessa, ma sulla base degli effetti che si ritiene essa produca su un fenomeno «esterno». In altri ter­mini, sono praticamente inesistenti prese di posizione sulla disugua­glianza motivate con argomenti puri di giustizia sociale, che si esprima­no sull'accettabilità di situazioni che offrono prospettive di vita molto diverse a individui per altri versi simili Dunque, la prima affermazione di Bobbio trova piena conferma nel modo di affrontare la questione del­la disuguaglianza da parte degli economisti
Il secondo punto riguarda il criterio di valutazione. Bobbio come si è vi­sto, fa riferimento a un'idea di progresso sociale. Per gli economisti, con poche eccezioni, il criterio è rappresentato dalla crescita del reddito — e, quindi, del prodotto interno lordo — che è ampiamente vista come una condizione essenziale, se non l'unica, di progresso. Ciò vale malgrado la consapevolezza piuttosto diffusa che i rapporti tra reddito, da un lato, e benessere e progresso, dall'altro, sono piuttosto deboli. Tuttavia, le ragioni della contrapposizione tra egualitari e inegualitari non risiedono, se non in modo marginale, nella diversa concezione di progresso (o, più in generale, nel diverso criterio esterno di riferimento) adottata.
Questa contrapposizione, ed ecco il terzo e più fondamentale punto, pog­gia, invece, su un'apparente diversa valutazione degli effetti della disu­guaglianza sulla crescita economica. Gli inegualitari (o la grande mag­gioranza) sostengono che una disuguaglianza più elevata favorisce la crescita economica, gli egualitari (o la grande maggioranza) nutrono l'opposta convinzione. Dunque, le due posizioni condividono il medesi­mo «schema di valutazione», nel senso che la crescita viene eletta a cri­terio unico, sulla base della convinzione che la sua promozione sia deci­samente desiderabile. Le differenze emergono rispetto ai meccanismi che legano la disuguaglianza alla crescita.
Gli inegualitari elencano, a livello teorico, numerosi canali attraverso cui può manifestasi la positiva influenza sulla crescita della disuguaglianza. In particolare essi fanno riferimento al contributo che quest'ultima può dare alla formazione di risparmio — considerato un elemento essenziale per la crescita da alcune teorie economiche — o al rafforzamento degli in­centivi individuali, dai quali dipendono molti comportamenti considera­ti essenziali per la crescita.
Dal canto loro, gli egualitari indicano altri e diversi meccanismi, tra i quali si può segnalare, ad esempio, quello relativo all'impatto negativo della disuguaglianza sui comportamenti cooperativi, dai quali pure di­pende, ed in vari modi, la crescita economica.
Senza entrare nel merito di questi numerosi meccanismi si può os­servare che essi sono, appunto, numerosi e che sembra assai difficile che possano darsi le condizioni per le quali, in modo sistematico e persisten­te, prevarranno quelli che sostengono la crescita piuttosto che quelli che la ostacolano. In effetti, l'analisi dei dati sembra dare ragione a questa posizione scettica.
Fino ai primi anni Novanta, molti studi empirici diretti ad accertare il rapporto tra disuguaglianza e crescita giungevano a conclusioni che sembravano offrire sostegno alle tesi degli inegualitari. La successiva di­sponibilità di dati di migliore qualità e il contemporaneo progresso nelle tecniche di stima econometrica hanno portato a esiti assai meno netti. I risultati cui pervengono i numerosi studi sul tema sono in apparente contrasto tra loro e forse possono essere sintetizzati nell'affermazione che essi provano l'assenza di un relazione chiara e sistematica, in un sen­so o nell'altro, tra disuguaglianza e crescita. L'idea che le relazioni tra le due variabili sono troppo numerose, e tra loro divergenti, per potersi condensare in una relazione univoca troverebbe, quindi, una conferma in queste «inconcludenti» analisi empiriche. Del resto, anche un'appros­simativa ricognizione priva di qualsivoglia rigore statistico suggerisce che paesi con livelli comparabili di crescita hanno sperimentato disugua­glianze molto diverse negli scorsi anni (Stati Uniti e alcuni paesi scandi­navi, ad esempio).
Dunque, disuguaglianza e crescita sembrano fenomeni piuttosto indipendenti tra loro. Numerosi elementi possono mediare l'impatto della disuguaglianza sulla crescita, impedendo la meccanica associazione tra le due variabili. Questi elementi possono riguardare il complesso delle poli­tiche adottate, le caratteristiche istituzionali dei sistemi economici nel lo­ro insieme, le più ampie diversità culturali e molte altre cose ancora. Proviamo a trarre le implicazioni che tutto ciò ha per il nostro problema. Gli economisti inegualitari si distinguono da quelli egualitari soprattutto sulla base di un diverso giudizio sul rapporto tra disuguaglianza e cre­scita, un giudizio che per la sua natura può essere sottoposto a verifica empirica. L'esito di tale verifica è, però, che nessuna delle due assunzio­ni trova conferma nei dati. La conclusione, piuttosto paradossale, è, dunque, che gran parte degli inegualitari, da un lato, e degli egualitari, dall'altro, vengono privati del principale argomento esplicitamente invo­cato a sostegno delle proprie posizioni. Malgrado le apparenze questa potrebbe essere una buona notizia. Essa potrebbe, infatti, sollecitare una rinnovata riflessione sulla disuguaglian­za economica che la valuti in relazione a idee più articolate di progresso. Ad esempio, in un libro recente e interessante, Wilkinson e Pickett invi­tano a tenere conto di numerosi indicatori di progresso sociale (tutti di diretta rilevanza per il benessere delle persone) e sostengono che dove la disuguaglianza è più alta questi indicatori segnalano un sistematico peg­gioramento. Un'altra strada da imboccare, che appare molto desi­derabile, potrebbe essere quella che consiste nel considerare le dirette implicazioni della disuguaglianza per il criterio di giustizia sociale consi­derato più accettabile. Emerge, comunque, da quanto si è fin qui esposto, un elemento che me­rita di essere sottolineato e cioè che la contrapposizione tra egualitari e inegualitari sembra avere carattere nascostamente ideologico: si utilizza­no criteri condivisi (la bontà della crescita) e si ipotizzano «fatti» non ve­rificati per sostenere tesi la cui vera origine, come suggerisce Bobbio, non è accertabile. Sembrerebbe, però, auspicabile che il discorso sull'egua­glianza fosse quanto più possibile esplicito in modo da poter individua­re, e valutare individualmente, l'origine delle diversità .
Conclusioni
Riassumendo, l'esame degli argomenti più frequentemente utilizzati dagli economisti per esprimersi sull'accettabilità della disuguaglianza econo­mica ci ha permesso di trovare conferma all'interpretazione di Bobbio se­condo cui egualitari e inegualitari si contrappongono sulla base di una di­versa valutazione degli effetti della disuguaglianza su un fenomeno ad es­sa esterno, di norma individuato nel progresso sociale. Per gli economisti (o la gran parte di essi) quest'ultimo si identifica con la crescita economi­ca, ed è rispetto a quest'ultima che viene giudicata la disuguaglianza. A differenziare le posizioni sembra essere, dunque, non un giudizio di valo­re ma un giudizio di fatto sul rapporto, empiricamente accertabile, tra di­suguaglianza e crescita. Sfortunatamente, l'evidenza empirica sembra ta­le da destituire di validità entrambi gli assunti, suggerendo una grande indipendenza della crescita rispetto alla disuguaglianza.
È di interesse che malgrado questa smentita, che viene dai fatti, le con­trapposizioni continuino, alimentandosi sostanzialmente degli stessi ar­gomenti. È ancora di maggiore interesse che queste idee sulla disugua­glianza trovino ampia accoglienza da parte dell'opinione pubblica e ven­gano spesso affermate nei grandi mezzi di comunicazione. Ciò vale so­prattutto per la tesi inegualitaria: quante volte è dato di leggere che la disuguaglianza serve alla crescita? L'impatto della diffusione di queste convinzioni sull'atteggiamento di ciascuno nei confronti della disugua­glianza è difficile da valutare, ma non sarebbe sorprendente se fosse tutt'altro che marginale.
C'è da chiedersi se anche in altri ambiti, oltre che in quello economico. non accada qualcosa di simile, e cioè che infondati giudizi di fatto fac­ciano da sostegno a posizioni che finiscono per determinare l'atteggia­mento nei confronti della disuguaglianza. È probabile che le alte disu­guaglianze nelle quali viviamo siano, almeno in parte, la conseguenza di una diffusa tolleranza nei loro confronti indotta da un pre-giudizio na­scosto dietro fatti del tutto inadeguati a sostenere il peso che si vuole as­segnare loro. Anche per questo forse sarebbe utile rafforzare la tendenza a concepire la disuguaglianza principalmente come un problema di giu­stizia sociale.
Cosa tutto questo possa eventualmente significare per l'opposizione de­stra/sinistra che certamente, come sostiene Bobbio, si riconnette a quel­la tra disuguaglianza e eguaglianza, è questione troppo complessa per le competenze dell'autore di questo saggio.”
In qualche misura ciò è accettato anche da Giavazzi ed Alesina2 e ci fa fare un passo avanti

1Maurizio Franzini “Bobbio letto dagli economisti” Micromega 2/2010 pagg.192-196. L’autore è professore ordinario di Politica economica nell’Università di Roma La Sapienza. Norberto Bobbio è autore particolarmente interessante per la nostra discussione in particolare per la sua “antidogmaticità” e “mitezza”. Ho eliminato le note dell’articolo citato.

2Già citato “La risposta dipende inevitabilmente dai valori in cui ciascuno crede . E’ legittimo obiettare alla discriminazione fondata sul merito (anche se per quel che ci riguarda non esiste un sistema più equo), ma discriminare in base al merito è certamente preferibile che discriminare in base al censo.”