Una parola: lavoro

Una riunione per parlare dei referendum sociali, opportuna e necessaria perché non solo è necessario andare a votare e provare a vincere questi referendum, ma perché costituisce un’occasione per cominciare a riflettere sul lavoro e sul suo ruolo nella società.

Solo alcuni spunti frammentari perché la discussione è complessa, partirei da un passaggio di un editoriale di Michele Serra in cui, parlando della minacciata scissione del PD, afferma:

Al suo posto uno scontro di potere che riesce a stento, e forse solo per mantenere il decoro, a contenere qualche riverbero di politica vera (la disputa sui voucher? Ovvero su meno del due per cento del totale delle retribuzioni? Esiste al mondo un partito di massa disposto a spaccarsi su una questione del genere?);”

E da una parallela battuta di Carofiglio in una trasmissione televisiva:

Voucher? Se andiamo in strada e chiediamo la gente risponderà che si tratta dei voucher delle agenzie di viaggio

In premessa non mi piace la categoria dei “traditori”, dei “venduti”, non per bon ton, ma perché non spiega. Serra e Carofiglio sono due intellettuali di sinistra e se dicono cose del genere, che ovviamente non condivido, significa che a sinistra alcune cose sono cambiate.

La parola “lavoro”, a sinistra, non significava “reddito”. Il lavoro non era il modo con cui ognuno porta il pane a casa e basta, era il contributo che ognuno da alla società, un diritto di cittadinanza. Il lavoro univa gli uomini e li rendeva parte di una comunità. Il lavoro era diritto non solo perché era un diritto averlo, ma perché i diritti nascevano dal lavoro. Era il lavoro che ci rendeva uguali. E nel lavoro c’erano diritti. Nelle parole di Serra e Carofiglio il lavoro è pura merce, ma anche nel jobs act il lavoro è merce, l’articolo 18 non era un totem o un residuato del passato, ma l’affermazione che io lavoro per te, ma non sono tuo, mantengo dei diritti che sono indisponibili e non sono monetizzabili, ad esempio il diritto a non essere licenziato senza giusta causa.

L’idea che il lavoro sia semplicemente reddito non è esterna a noi, è entrata in CGIL e nella sinistra. Si pensi a a Ichino ed alla sua flexsecurity, “non difendiamo il posto, ma il lavoratore”. Abbiamo avuto paura di difendere il posto fisso, abbiamo visto un trade-off tra Diritto e Reddito ed abbiamo perso diritto e reddito, perché Serra dimentica che se i voucher sono il 2% del monte salari, questo monte salari è andato drammaticamente diminuendo in rapporto al PIL. Si è realizzato perciò una redistribuzione dei redditi a danno del lavoro ed a vantaggio del capitale spaventosa, facendo esplodere le disuaguaglianze nel mondo ed in Italia.

Non è una questione lessicale o di poca importanza dire che il lavoro nero è sfruttamento, ma il voucher è sfruttamento legalizzato. E non è questione di limitare l’abuso dei voucher, andrebbe già bene questo, ma fintanto che il voucher esiste, esisterà l’idea che al lavoro corrisponde un salario, ma non diritti, nemmeno quelli fondamentali quali la malattia o le ferie.

Ed a Sanremo ci spiegano che le ferie sono un privilegio non un diritto, persino il lavoro diviene un privilegio. Normale spostamento lessicale che, però, produce politiche redistributive regressive: i ricchi diventano più ricchi ed il lavoro s’impoverisce.

Lo dico perché non solo nella sinistra si è infiltrato questa deriva di senso, ma anche in me. Ho parlato di “capitale umano” e “società della conoscenza” senza riflettere che stavo pensando all’istruzione come variabile dipendente del mercato del lavoro, non diritto della persona alla conoscenza ed alla libertà, ma componente della produttività della merce uomo.

E questo avviene nel momento in cui il lavoro dall’Occidente scompare per delocalizzazione e rivoluzione tecnologica. L’Italia si è deindustrializzata, ci siamo baloccati con i distretti ed il piccolo è bello e ci ritroviamo con una drammatica deindustrializzazione. Qualcuno a “sinistra”, con molte virgolette, comincia a parlare di “esercito industriale di riserva” per gli immigrati, di globalizzazione malvagia e di sovranismo. Io credo che siano parole d’ordine sbagliate, vecchie e che non colgono la novità di cosa accade e pericolose perché richiamano echi dolorosi. Chiudo, dicendo che mi piacerebbe che i referendum fossero l’occasione per cominciare a riflettere su questo, superando, lo dico per scrupolo, la discussione su chi abbia avuto ragione o torto, io parto dai torti miei come è giusto, ma il discorso da fare non parte da strade vecchie, è completamente nuovo.