Sulla meritocrazia parte seconda

La mia ultima frase che anche la democrazia “odi” le discriminazioni necessita di un ulteriore approfondimento. Secondo i “meritocratici” la democrazia è mobilità sociale ed equità di possibilità, almeno nella forma della democrazia americana, ma le cose non stanno così. Utilizzerò per contestare questo punto un interessante libro di Cristopher Lasch1, senza peraltro poter approfondire le moltissime questioni che pone.

Lasch è uno storico americano, insegnava nell’università di Rochester2, appartiene a quella cultura liberal americana ed è un intellettuale molto anticonvenzionale. Vediamo che dice a proposito delle discriminazioni per merito o per censo:

Questa arroganza non andrebbe confusa con l’orgoglio tipico delle aristocrazie, che si basa sull’appartenenza ereditaria a un antico lignaggio e sull’obbligo di difenderne l’onore. Né il coraggio, né la cavalleria, né il codice dell’amore romantico e cortese, che sono dei valori strettamente associati a quelli nobiliari, hanno parte nel mondo dei migliori e dei più brillanti. Una meritocrazia non ha bisogno di cavalleria e di coraggio più di quanto un’aristocrazia abbia bisogno di cervello. Anche se i vantaggi ereditari hanno una grande importanza per ottenere una posizione professionale o manageriale, la nuova classe deve fingere che il suo potere derivi dall’intelligenza e null’altro. Ne derivano, inevitabilmente, un senso scarsissimo di gratitudine ancestrale e la totale mancanza di consapevolezza dell’obbligo di affrontare le responsabilità ereditate dal passato. La nuova classe si considera una self made èlite, che deve i suoi privilegi esclusivamente ai propri sforzi. Persino il concetto di “repubblica delle lettere”, che sarebbe abbastanza logico attendersi in un’èlite così interessata all’istruzione superiore, è quasi completamente assente dal suo quadro di riferimento. Le èlite meritocratiche hanno difficoltà a immaginare una comunità, anche una comunità intellettuale, che si prolunghi tanto nel passato quanto nel futuro e comporti una consapevolezza degli obblighi intergenerazionali. Le “zone” e le “reti tanto ammirate da Reich3 somigliano assai poco a comunità, in qualsivoglia senso del termine. Popolate da nomadi, mancano della continuità che deriva dal senso di appartenenza a un luogo e da degli standard di condotta coscientemente coltivati e trasmessi da una generazione all’altra. La “comunità” dei migliori e dei più brillanti è una comunità di contemporanei, nel duplice senso che i suoi membri si vedono come eternamente giovani e che il marchio di questa eterna giovinezza consiste precisamente nella loro capacità di tenersi sempre in pari con le ultime tendenze alla moda”4

Esistono altri passi nel libro di Lasch in cui si preferisce l’aristocrazia di sangue a quella del merito sulla base che la prima conosce “il noblesse oblige” ed il mecenatismo, la seconda dovendo tutto, solo a se stessa, non si sente in debito con nessuno ed autorizzata a tutto (lo stile cafonal italiano è meritocratico?). Nelle pagine di Lasch sembra di risentire il “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra. “ Calogero Sedara, però, è un bell’esempio di “mobilità sociale”, per merito. Non posso seguire Lasch in tutto il suo discorso, però la sua analisi con quella mescolanza di “sinistra no global” e “populismo”5 è affascinante, ma lo userò per descrivere la società che Giavazzi, Alesina, Abravanel auspicano.

Continuiamo nella lettura:

Ortega6 e altri critici hanno descritto la cultura di massa come una combinazione di “ingratitudine radicale” e di una fede indiscussa di disporre di possibilità illimitate. L’uomo massa, secondo Ortega, dava per scontati i benefici conferitigli dalla civiltà, li esigeva “con perentorietà, come se fossero diritti naturali”. Erede di tutti i tempi, era beatamente incosciente del proprio debito con il passato. Anche se godeva dei vantaggi che derivavano dalla generale “ascesa del livello storico, non si sentiva obbligato né verso i suoi genitori né verso la sua progenie. Non riconosceva altra autorità all’infuori di se e si comportava come se fosse “signore e padrone della sua esistenza”. La sua “incredibile ignoranza della storia” gli permetteva di considerare il presente come assolutamente superiore a tutte le civiltà del passato e di dimenticare, oltretutto, che la civiltà contemporanea è il prodotto di secoli di sviluppo storico e non la realizzazione unica di un’età che ha scoperto il segreto del progresso voltando la schiena al passato.

Oggi, questo modo di pensare, sembrerebbe riferirsi più all’ascesa della meritocrazia che alla “ribellione delle masse”. Ortega stesso aveva ammesso che ” il prototipo dell’uomo massa “ era “l’uomo di scienza”: “il tecnico”, lo “specialista”,” l’ignorante colto”, la cui padronanza “del proprio angolo specifico dell’universo” era pari solo alla sua ignoranza del resto. Ma il processo in questione non deriva semplicemente, come l’analisi di Ortega sottintende, dalla sostituzione del vecchio modello dell’uomo di lettere con quello dello specialista: deriva dalla struttura intrinseca della stessa meritocrazia. Offre un’opportunità di avanzamento, almeno in teoria, a chiunque abbia il talento di approfittarne, ma “le opportunità di ascesa sociale”, come ha fatto notare R.H.Tawney in Equality, “non sono il sostituto di una diffusione generale degli strumenti della civiltà”, della “dignità e della cultura” di cui tutti hanno bisogno, “che ascendano o no”. La mobilità sociale non mette in discussione l’influenza delle èlite: semmai, le aiuta a rafforzarla e stabilizzarla, diffondendo l’illusione che sia fondata solo sul merito. E rende molto più probabile che le èlite esercitino il loro potere irresponsabilmente, proprio perché riconoscono così pochi obblighi verso i propri predecessori e verso la comunità che sostengono di guidare. La mancanza di gratitudine dequalifica le èlite meritocratiche rispetto all’esercizio di una leadership. In ogni caso, ai loro esponenti non interessa tanto la leadership, quanto l’esser diversi dalla gente comune, che è appunto la definizione più appropriata del successo meritocratico.”

Raramente la logica interna della meritocrazia è stata denunciata con tanto vigore quanto nel romanzo di Michael Young- The Rise of Meritocracy, 1870-20337, un’opera scritta nella tradizione di Towney, G.D.H.Cole, George Orwell, E. P. Thompson e Raymond Williams.

L'io narrante di Young, uno storico che scrive nel quarto decennio del ventunesimo secolo, ci fa una cronaca entusiasta della "trasformazione fondamen­tale" avvenuta nel secolo e mezzo che ha seguito, più o meno, il 1870: la ridistribuzione dell'intelligenza "tra le classi". "Per impercettibili gradi, un'aristocrazia della nascita si è trasfor­mata in un'aristocrazia del talento." Grazie all'adozione da parte dell'industria dei test d'intelligenza, la rinuncia al princi­pio di anzianità, il crescere dell'influenza della scuola rispetto a quello della famiglia, "le persone di talento hanno avuto la possibilità di ascendere a un livello adeguato alle loro capacità e le classi inferiori sono state così riservate a chi avesse delle abilità inferiori". Questi cambiamenti hanno coinciso con il crescere della consapevolezza che "l'unico vero obiettivo" dell'organizzazione sociale è l'espansione economica e che le persone vanno giudicate in base alla loro capacità di produrre. La meritocrazia, nella descrizione di Young, si fonda su un'eco­nomia in movimento spinta da una compulsione a produrre. Naturalmente, riconoscere che la meritocrazia è più effi­ciente del sistema ereditario non bastava, in se, a ispirare o giustificare la "trasformazione psicologica su vasta scala ri­chiesta dall'economia". "Il principio ereditario non sarebbe mai stato rovesciato," prosegue il narratore di Young, "... sen­za l'aiuto di una nuova religione e questa religione fu il so­cialismo." I socialisti, vere "levatrici del progresso", hanno contribuito al trionfo finale della meritocrazia, incoraggiando la produzione su larga scala, criticando la famiglia in quanto culla dell'individualismo acquisitivo e soprattutto ridicolizzan­do i privilegi ereditari e "il criterio corrente del successo" ("Non conta quello che sai, ma quello che sei"). Nella narra­zione di Young, soltanto un pugno di egualitaristi romantici ha avuto il coraggio di condannare l'ineguaglianza in quanto tale e di "continuare a cianciare di 'dignità del lavoro', come se il lavoro manuale valesse quanto quello intellettuale". Quegli stessi sciocchi sentimentali erano affezionati all'idea superata che il sistema delle scuole pubbliche, in quanto promotore di una "cultura comune", fosse una componente essenziale di una società democratica. Per fortuna, la loro "fiducia esagera­tamente ottimistica sull'educabilità della maggioranza" non era sopravvissuta alla prova dell'esperienza, come un sir Har­tley Shawcross aveva notato nel 1956: "Non conosco un singo­lo membro del partito laburista che, potendoselo permettere, non mandi i suoi figli alla public school". La public school bri­tannica, notoriamente, è quella che negli Stati Uniti e altrove si definisce "scuola privata". La fiducia dottrinaria nell'egua­glianza era entrata in crisi di fronte ai vantaggi pratici di un sistema educativo in cui "gli intelligenti non erano più costret­ti a mescolarsi agli stupidi". Le immaginose proiezioni di Young sulle tendenze postbelliche in Gran Bretagna gettano parecchia luce su quelle simi­lari operanti negli Stati Uniti, in cui un sistema di reclutamen­to delle èlite apparentemente democratico conduce a dei risul­tati ben lungi dall'essere democratici: segregazione delle classi sociali, disprezzo per il lavoro manuale, crisi delle scuole pub­bliche. Come la descrive Young, la meritocrazia ha l'effetto di rendere le elite più sicure che mai dei propri privilegi (che adesso possono considerare come il compenso adeguato della loro diligenza e delle loro capacità intellettuali), nullificando al tempo stesso l'opposizione delle classi lavoratrici. "Il modo migliore per sbaragliare le opposizioni" osserva lo storico Young, "è quello di appropriarsi dei loro figli migliori ed educarli mentre sono ancora piccoli." Le riforme del sistema scolastico del ventesimo secolo "hanno permesso ai bambini più intelligenti di uscire dalle classi inferiori e inserirsi in quella classe superiore cui avevano le doti per accedere". Chi resta indietro, sapendo "di aver avuto tutte le opportunità" non può legittimamente deprecare la propria sorte. "Per la pri­ma volta nella storia umana, l'uomo inferiore non ha di che puntellare la propria stima di se." Non dovremmo sorprenderci, di conseguenza, se la merito­crazia genera una specie di preoccupazione ossessiva per l'"au­tostima". Esistono persino delle nuove terapie (talvolta note collettivamente sotto il nome di recovery movement) che cerca­no di controbilanciare il senso angoscioso di fallimento di chi non riesce a completare gli studi, lasciando ovviamente intatta la struttura attuale del reclutamento d'elite, come a dire il mo­mento dell'acquisizione delle credenziali scolari. Dal momento che il senso del fallimento non sembra più avere un fondamen­to razionale, è ovvio che richieda un intervento terapeutico. Senza soverchia convinzione, i terapeuti cercano di rassicurare i senzacasa, i disoccupati (anche laureati) e altri perdenti che il loro fallimento non è colpa loro: che le carte erano truccate; che i test che misurano il profitto scolastico sono culturalmen­te falsati; che il successo universitario è, in effetti, un privilegio ereditario, perche le classi medio superiori trasmettono ai pro­pri figli quei vantaggi accumulati che virtualmente lo garanti­scono. Come osserva Young, chi si considera di sinistra (al pa­ri, d'altronde, delle sue controparti di destra) e sempre felice di attaccare i privilegi ereditari, ma ignora quella che è la vera obiezione contro la meritocrazia - il fatto che essa "dreni" i ta­lenti delle classi inferiori, privandole di una leadership capace - e finisce con il rassegnarsi, sulla base di argomentazioni piut­tosto dubbie, al fatto che l'educazione non mantenga le sue promesse di promozione sociale. Se questo avvenisse, sembra sottintendere, nessuno avrebbe il diritto di lamentarsi. L'aristocrazia del talento, che a prima vista può apparire un ideale ricco di attrattiva, in grado di distinguere le democrazie dalle società basate sul privilegio ereditario, si risolve in una contraddizione in termini: le persone "di talento" hanno la maggior parte dei vizi dell'aristocrazia senza possederne le virtù. Il loro snobismo non riconosce in alcun modo l'esisten­za di obblighi reciproci tra i pochi privilegiati e le masse. Anche se sono pieni di "compassione" per i poveri, non sottoscri­vono certo la teoria del noblesse oblige, che comporterebbe l'impegno a contribuire direttamente e personalmente al bene pubblico. Gli obblighi, come tutto il resto, sono stati depersona­lizzati: si adempie ad essi attraverso le organizzazioni pubbliche e il loro peso non ricade sulla classe manageriale e professiona­le, ma, in misura affatto sproporzionata, sulle classi medio bas­se e su quelle lavoratrici. Le politiche realizzate dai liberali della nuova classe a vantaggio degli oppressi e dei diseredati - per esempio l'integrazione razziale nelle scuole pubbliche - richie­dono sacrifici alle minoranze etniche che condividono le stesse zone abitative con i poveri, e solo raramente ai progressisti dei quartieri alti che le propongono e portano avanti. Le classi privilegiate - che potremmo quantificare, per ec­cesso, nel 20 per cento di fascia superiore della popolazione -si sono rese indipendenti in misura allarmante non solo dalle città industriali fatiscenti, ma dai servizi sociali in generale. Mandano i loro figli in scuole private, si assicurano contro malattie e incidenti sottoscrivendo i piani previdenziali delle società per cui lavorano, e assumono delle guardie del corpo private per difendersi dalla violenza che li attornia. In effetti, si sono estraniate totalmente dalla vita comune. E il problema non consiste solo nel fatto che i loro esponenti non vedono perche dovrebbero pagare per servizi sociali che non usano. Molti di loro non si considerano neanche più americani in alcun senso importante, non si sentono coinvolti, per il be­ne o per il male, nel destino dell'America. I loro legami con una cultura del lavoro e del divertimento del tutto internazio­nalizzata - per quanto riguarda gli affari, l'intrattenimento, l'informazione e il "ritorno di informazione" - li rendono in gran parte indifferenti alle prospettive di declino nazionale.”

Scusate la lunghissima citazione ma è scritto così chiaro che non avrei potuto parafrase, a parte che parafrasando mi sarei appropriato del merito di qualcun altro. Per ora non cito altro da Lasch raccomandando la lettura dell’intero libro8.

1Christopher Lasch-La ribellione delle èlite-Ed. Universale Feltrinelli ,2001

2Credo l’universita sia questa (fonte Wikipedia):

La University of Rochester è un istituto di ricerca privato, misto e non settoriale situato a Rochester, New York.

L'università è una dei 62 membri della prestigiosa Association of American Universities (associazione delle università americane). Fu fondata nel 1850, al giorno d'oggi offre programmi di laurea, bachelor, master e livelli di dottorato in svariate discipline.”

 

3Lasch è profondamente legato alla realtà americana, spesso cita personaggi importanti per la cultura contemporanea americana, Reich, uno dei suoi bersagli, è un professore di Berkeley che è stato ministro del Lavoro nell’amministrazione Clinton. Lasch costruisce un’interessante analisi collegandosi piuttosto al pensiero conservatore americano, oltre al classico di Ortega y Gasset-La ribellione delle masse. Il libro difficile e controverso è interessante perché descrive con chiarezza incredibile alcune dei difetti della “meritocrazia” oltre al suo essere “politicamente scorretto”

4Lasch op.cit pag 40

5E’ da precisare che il termine non ha niente a che fare con il regime comunemente inteso. Si tratta, per Lasch, di un sistema basato sul “localismo” (la piccola comunità), le tradizioni e la religione. Tutto legato alla realtà americana si veda la polemica con chi, come i nostri autori, vede la democrazia americana come mobilità sociale e pari opportunità.

6Si tratta ovviamente di Ortega y Gasset, l’autore della “Ribellione delle masse”

7Il libro di Young è stato pubblicato nel 1962 con il titolo “L’avvento della meritocrazia” nelle edizioni Comunità di Adriano Olivetti, è da tempo esaurito, mai ristampato, introvabile anche su mercato antiquario (almeno su quello di internet). Io ho trovato un edizione in inglese della Penguin che ho prontamente acquistato. Le sorti di un libro così interessante dicono molto sull’egemonia di sinistra sull’editoria. ho travato ed acuistato il libro in italiano su ebay. Il libro di Young è spaventosamente frainteso: casualmente? perché citato, ma non letto?. Michael Young l’inventore del termine meritocrazia la riteneva un obbrobrio, il suo romanzo era, come segnala Lasch, un romanzo distopico. L’ignoranza, o la malafede, di molti meritocratici lo ha reso un “paladino” della meritocrazia. Per chi volesse qualche notizia su quest’uomo politico ed intellettuale notevole può vedere

http://archiviostorico.corriere.it/2002/gennaio/26/scomparso_Young_inventore_della_meritocrazia_co_0_020126487.shtml

8 Elenco il titolo dei capitoli del libro di Lasch:

Il malessere della democrazia

Parte prima-

L’acuirsi delle divisioni sociali

La ribellione delle èlite

L’opportunità della terra promessa- Mobilità sociale o democratizzazione delle competenze

La democrazia merita di sopravvivere?

Parte seconda

Il declino del discorso democratico

La conversazione e le arti civiche

Politiche razziali a New York- L’attacco agli standard comuni

Le scuole pubbliche-Horace Mann e l’attacco all’immaginazione

La discussione:un’arte perduta

Pseudoradicalismo accademico- La sciarada della sovversione

Parte terza-

La notte oscura dell’anima

L’abolizione della vergogna

Phlip Rieff e la religione della cultura

L’anima dell’uomo sotto il secolarismo