Sulla meritocrazia quarta parte

Guardate cosa dice LASCH in merito alla classe sociale dei meritocratici:

La classe medio superiore, che rappresenta il nerbo delle nuove elite professionali e manageriali, e definita (prescinden­do dalla rapida crescita dei suoi redditi) non tanto da un'ideo­logia, quanto da uno stile di vita che la distingue, con evidenza sempre maggiore, dal resto della popolazione. Anche il suo femminismo - come a dire il suo impegno per la famiglia a doppio reddito - è un fatto più di necessità pratica che di con­vinzioni politiche. Lo sforzo compiuto da alcuni per definire una "nuova classe" composta di amministratori pubblici e po­litici instancabilmente dediti alla realizzazione di un programma di riforme liberali, ignora la portata delle opinioni politi­che tra le èlite professionali e manageriali. Questi gruppi co­stituiscono una nuova classe solo nel senso che i loro mezzi di sussistenza non dipendono tanto dalla proprietà quanto dalla manipolazione dell'informazione o dalla qualificazione professionale. La loro tendenza a investire in istruzione e informa­zione, piuttosto che nella proprietà, li distingue dai ricchi bor­ghesi, i cui predecessori, a suo tempo, avevano caratterizzato una fase antecedente del capitalismo, e dalla vecchia classe proprietaria - la classe media in senso stretto - che una volta rappresentava il nucleo centrale della popolazione.

Visto che abbracciano una cospicua varietà di occupazioni - agenti di borsa, banchieri, operatori del mercato immobilia­re, ingegneri, consulenti di tutti i tipi, analisti dei sistemi, scienziati, medici, pubblicisti, editori, dirigenti pubblicitari e editoriali, produttori e registi televisivi, direttori artistici, ci­neasti, giornalisti, artisti, scrittori, docenti universitari - e vi­sto che non hanno un punto di vista politico comune, e altresì inappropriato definire le elite professionali e manageriali co­me una nuova classe dirigente. Alvin Gouldner, in uno dei ten­tativi più convincenti di caratterizzare la "nuova classe", ha identificato il suo elemento unificante nella "cultura del di­scorso critico", ma anche se questa formula evidenzia una ca­ratteristica essenziale dell'atteggiamento laico e analitico che oggi prevale nei circoli sociali superiori, essa esagera la componente intellettuale nella cultura delle nuove èlite e il loro in­teresse alla razionalizzazione della vita, e minimizza la fasci­nazione che su di loro esercita il mercato capitalistico e la loro convulsa avidità di profitto.

Un elemento più rilevante è il fatto che il mercato in cui operano le nuove elite ha oggi una dimensione internazionale. Le loro fortune sono legate a imprese che operano senza bada­re ai confini nazionali e le loro preoccupazioni riguardano il buon funzionamento globale del sistema, non quello delle sue singole parti. La loro lealtà - se il termine non è anacronistico in questo contesto – è di tipo internazionale, più che regiona­le, nazionale o locale. I loro esponenti hanno molte più cose in comune con le loro controparti di Bruxelles o di Hong Kong che con le masse di americani non ancora allacciati alla rete della comunicazione globale.

La categoria di "analista simbolico", elaborata da Robert Reich, può servire, se si prescinde dalla sua incoerenza sintattica, da utile descrizione empirica, senza troppe pretese, della nuova classe. Essa è composta, nella descrizione di Reich, da persone che vivono in un mondo di concetti e simboli astratti, siano essi le quotazioni del mercato di borsa o le immagini vi­sive di Hollywood o di Madison Avenue, e che si specializzano nell'interpretazione e nella diffusione di informazioni simboli­che. Reich le contrappone due altre categorie principali di for­za lavoro: quella dei routine production workers (lavoratori di routine della produzione), che eseguono dei compiti ripetitivi ed esercitano un controllo molto limitato sulla produzione, e quella degli in-person servers (addetti alla persona), il cui lavo­ro ha sempre delle caratteristiche di routine, ma, in genere, deve "essere fornito da persona a persona" e quindi non può essere "venduto in tutto il mondo". Se trascuriamo il carattere altamente schematico e necessariamente impreciso di queste categorie, vedremo che corrispondono all'osservazione quoti­diana con sufficiente precisione e ci danno una descrizione abbastanza accurata non solo della struttura occupazionale, ma della struttura di classe della society americana, in cui gli "analisti simbolici" sono evidentemente in ascesa, mentre le altre categorie, che rappresentano 1'80 per cento della popola­zione, tendono a un abbassamento di status e ricchezza.

Imprecisione a parte, a Reich bisogna obiettare che la sua descrizione degli "analisti simbolici" è lusinghiera ai limiti della stravaganza. Essi rappresentano, ai suoi occhi, la compo­nente "migliore e più brillante" della society americana. Edu­cati in "scuole private di èlite" e in "scuole di alto livello, dove hanno seguito corsi avanzati", godono di tutti i vantaggi che dei genitori fin troppo affezionati possono assicurare:

Insegnanti e professori sono attenti ai loro bisogni didattici. Hanno accesso ai più moderni laboratori scientifici; dispongono di computer interattivi e sistemi video in aula, di laboratori lingui­stici e biblioteche di livello universitario. Studiano in classi relati­vamente poco affollate, tra compagni intellettualmente stimolan­ti. I genitori li accompagnano ai musei e agli eventi culturali, li fanno viaggiare all'estero e fanno loro studiare la musica. A casa non mancano libri educativi, giochi e video didattici, microscopi, telescopi e personal computer provvisti del più aggiornato software didattico.

Questi giovani privilegiati completano gli studi nelle "mi­gliori università del mondo", istituti a riprova della cui superiorità è il grande numero di stranieri che chiedono di esservi ammessi. In questa atmosfera cosmopolita, possono sfuggire al provincialismo che, secondo Reich, ostacola il lavoro creati­vo. "Scettici, curiosi, creativi" diventano dei risolutori di pro­blemi par excellence, sempre pronti a ogni sfida. Diversamente da chi si impegna in un ottusa routine, amano il loro lavoro, che per loro significa la possibilità di continuare ad apprende­re e sperimentare per tutta la vita.

A differenza degli intellettuali di vecchio stampo, che ten­dono a lavorare ciascuno per conto proprio e a essere posses­sivi e gelosi riguardo alle proprie idee, questi nuovi lavoratori intellettuali - produttori di "intuizioni" ad alto livello in una varietà di campi che spazia dalla finanza e dal marketing all'arte e all'intrattenimento - danno il meglio di se nel lavoro di gruppo. La loro "capacità di collaborazione" promuove il "pensiero sistemico", come a dire la capacità di vedere i pro­blemi nella loro totalità, di assorbire i frutti della sperimenta­zione collettiva e di "discernere cause, conseguenze e rapporti a un livello più alto". Dal momento che il loro lavoro dipende in tanta misura dall'"interrelazione", hanno la tendenza a sta­bilirsi in "sacche geografiche specializzate" popolate da loro simili. Queste comunità privilegiate - Cambridge, la Silicon Valley, Hollywood - diventano dei centri "straordinariamente reattivi" di attività artistica, tecnologica e promozionale. Anzi, nella visione ammirata di Reich, rappresentano l'epitome di ogni risultato intellettuale e di un elevato stile di vita, concepi­to come uno scambio continuo di "intuizioni", "informazione" e pettegolezzo professionale. Per non dire che la concentrazio­ne geografica dei produttori di conoscenza, una volta che ab­bia raggiunto una sua massa critica, rappresenta un mercato per la classe in ascesa degli "addetti alla persona" che provve­dono ai loro bisogni.

Non è un caso se Hollywood è diventata la sede di un numero co­spicuo di maestri di dizione, maestri di scherma, maestri di ballo, agenti e fornitori di attrezzature fotografiche, acustiche e d'illu­minazione. E non è un caso se nelle sue immediate vicinanze ci sono dei ristoranti che offrono proprio l'ambiente adatto per i produttori che corteggiano i registi, i registi che corteggiano gli sceneggiatori e tutti coloro che a Hollywood corteggiano qualcun altro.”

Bella descrizione non c’è che dire e se c’è qualcuno che può ben dire di appartenere a questa èlite è l’Ing Abravanel, guardate come si presenta nel suo sito:

Roger Abravanel (Tripoli, 1946), laureato in ingegneria al Politecnico di Milano, master in business administration all'Insead di Fontainbleau, ha lavorato per trentaquattro anni in McKinsey come consulente di aziende italiane e multinazionali in Europa, America ed Estremo Oriente. Nel 2006 ha lasciato la McKinsey ed è attualmente consigliere di amministrazione di varie aziende e advisor di fondi Private Equity in Italia e all' estero. E' autore di saggi e articoli, tra i quali Privatizzare per liberalizzare (1993), I distretti tecnologici (2001), Le sfide della crescita delle imprese famigliari italiane (2006), Scelte coraggiose per sviluppare un'economia di servizi (2006).”

Che c’è di male, belle scuole, buoni studi ed analista finanziario in McKinsey, ora advisor di private Equity in Italia e all’estero. Dovremmo tutti voler diventare come lui o almeno che i nostri figli lo diventino.